LA SOSTANZA DEI SOGNI

Ogni artista, nel corso della sua esperienza, focalizza la propria attenzione su soggetti, tecniche o modus operandi che porta sempre con sé, pur continuando ad evolversi nel tempo. È il valore aggiunto dell’esperienza, pittorica o scultorea che sia, cioè la capacità di rimanere sempre se stessi nel cambiamento. Questo vale anche per Ermanno Zamboni che ha seguito, nel corso della sua attività, percorsi diversi e variegati che lo hanno portato ad acquisire una completezza espressiva notevole, senza fargli mai perdere di vista ciò che da sempre lo ha contraddistinto: l’attenzione per la figura, umana e non, unita alla ricerca espressivo-cromatica, tesa a mettere in evidenza il valore empatico ed effusivo delle sue composizioni.

 

La figura umana, in particolare, è da sempre al centro dell’interesse degli artisti che, fin dall’antichità, hanno studiato il modo migliore per riprodurla, consapevoli della sua centralità. Il suo inserimento nei vari contesti e la caratterizzazione anatomica sempre più insistita hanno permesso il processo di identificazione che, ancora oggi, il riguardante può mettere in atto di fronte a qualcuno in cui si riconosce o del quale riconosce le emozioni. Così, da secoli, il figurativismo ha celebrato l’umanità attraverso la rappresentazione plastica di corpi che, indipendentemente dalla loro resa realistica, consentono di attivare circoli virtuosi di emozioni tra chi guarda e chi è guardato.

Zamboni ha, fin dall’inizio, lavorato intensamente sulla figura umana e sul mondo, modificando nel tempo il suo approccio, ma continuando a cercare la chiave per interpretare il reale. Le sue opere sono segno della sua vibrante capacità compositiva, ma anche del coraggio che connota un percorso in continua evoluzione. La sua formazione ha costituito il sostrato su cui ha innestato la riflessione che da anni lo coinvolge; nascere nella valle toccata dal genio di Gaudenzio e Tanzio ha influenzato il suo approccio alla bellezza. Ad inizio Cinquecento il valduggese ha liberato il territorio piemontese dalle costrizioni del gotico internazionale nel quale erano ancora imbrigliate le botteghe di frescanti che, dalla Valsesia, si muovevano verso i centri del potere. Un secolo dopo Tanzio ha invece ammantato di luce i suoi soggetti, diffondendo il verbo caravaggesco in tutto il Nord Italia e non solo. Le opere di Gaudenzio sono perfetta sintesi di incanto e ricerca costruttiva, di plasticismo e cromie palingenetiche; quelle di Tanzio fusione di colore e luminosità. Zamboni respira queste suggestioni, ancora prima che come artista come restauratore, e se ne imbeve, arrivando a possederle al punto da poterle reinterpretare con una libertà immaginativa che gli consente di affrancarsi con uno sguardo di gratitudine da quelli che possono essere considerati tra i suoi maestri.

Ed ecco che, negli anni Settanta, inizia a trasporre sulla superficie le sue figure, spesso femminili, impregnate da una spiritualità essenziale, ma non per questo meno efficace. Quando Giovanni Testori, nel 1965, scrive il suo saggio su Gaudenzio dice che il Ferrari era “al punto in cui tutta una tradizione antica e non mai espressa appieno, si andava facendo forma vivente, immagine matura e, per l’appunto, teatro, in plastica e colori, sì che nella vicenda di una vita s’esprimesse come in uno spettacolo, la tenerezza d’ogni nascita e il dolore d’ogni morte”. Queste parole sembrano appartenere ai dipinti degli anni Settanta, in cui il ductus pittorico di concretezza materica impagina figure dolenti di un’umanità persa in registri di melanconia. Anche i nudi sono toccati dal divino che è nella natura e che diventa spiritualità altra, di terrena consistenza; la fascinazione che promana dalle opere si fa evidente nel fremito che pervade l’anima quando ci si ferma ad osservare questi mondi per farne parte.

Il decennio successivo è soffuso di una dolcezza nuova, accompagnata da una sensibilità che si modula attraverso i colori di una tavolozza variegata; la materia si diluisce nella ricerca di segni più decisi e talvolta netti, a delimitare le volumetrie perfezionate. Si assiste anche alla trasformazione degli esseri umani in statue, nelle quali è evidente la matrice classica riletta sulla base di una modernità che dona loro un soffio di vita, per poi inserirle nella quotidianità che ognuno di noi abita, con le proprie gioie e i propri dolori. Quasi pittura metafisica, secondo l’accezione dechirichiana di questa locuzione: la giustificazione teorica della pittura metafisica era basata sulla teoria di Schopenhauer relativa alle apparizioni, secondo la quale l’immagine del sogno susciterebbe desiderio e sorpresa, da un lato con la sua realtà, dall’altro al di là delle umane possibilità di azione. Il sogno travalica dunque le funzioni cerebrali di spazio, tempo, causalità e coglie una realtà più vera. Quel senso di sorpresa e quel raggiungimento di una realtà non contingente sono, per De Chirico, lo scopo della pittura metafisica e tale diventa per Zamboni, che riesce a suscitare sorpresa e straniamento grazie alle sue composizioni, che superano il limite dell’umano comunemente inteso e divengono, appunto, sogno. La matrice onirica sembra diventare preponderante in molte sue opere, che si ammantano di una luminosità intensa che gioca con le dense campiture di colore. In questa fase il divino si concreta soprattutto in opere che danno la misura del suo rapporto con Gaudenzio e Tanzio: scene intrise di religiosità, che non temono di svelare il loro lato umano, quasi novella rappresentazione per immagini di sacromontana memoria.
Gli anni seguenti vedono lo sviluppo di una serie di riflessioni che trovano risposta soprattutto nelle Annunciazioni, nelle nature morte e nei sogni. “Avvenga di me quello che hai detto” risponde la Vergine all’angelo e sentiamo il peso di queste parole nelle tavole che coniugano colori densi a sfolgorii scintillanti in cui è possibile riconoscere la presenza di Dio. Le nature morte sembrano guardare all’arte fiamminga e le fanno incontrare la pittura metafisica per dar vita a scene in cui la frutta e la verdura sono le apparizioni di Schopenhauer: introducono, infatti, nel contesto l’elemento destabilizzante, cosa questa che si fa evidente nella scelta dei colori di terso nitore che spiccano in primo piano, intessendo un raffinato dialogo chiaroscurale con gli ambienti. I drappi bianchi che fanno quasi da contenitore diminuiscono ulteriormente la tonalità complessiva, dando vita ad una sorta di gioco luministico che amplifica la bellezza degli oggetti. I sogni, infine, servono a comprendere la vera realtà e acquistano dunque un sentore di verità che va ben al di là di quella che è la loro natura, per diventare sguardo illuminato e illuminante sull’universo.

Il nuovo secolo riporta l’attenzione sulla figura umana, sempre più veritiera pur nel suo essere estranea all’umanità; i colori si sfumano nei lavori ad inchiostro, creando raffinati effetti luminescenti che sembrano astrarre quanto raffigurato dall’hic et nunc. Le stesse nature morte, in cui l’artista sembra aver trovato la propria cifra stilistica, acquistano caratteri più spiccatamente secenteschi, immerse in quinte sceniche scure che le contengono quasi come in un sarcofago, ma allo stesso tempo inventano nuove luminosità. Compaiono anche i manichini animati, necessaria conseguenza di quel costante rapporto con la pittura metafisica che da sempre coinvolge Zamboni. Secondo Nietzche, cambiare prospettiva dona ad ogni cosa la sua anima, un proprio linguaggio, una propria psicologia, anche quando si tratta di oggetti inanimati come i manichini, che vanno a sostituire la statua, a sua volta surrogato della figura umana. È la pittura ad animare ciò che animato non è: il pittore diventa demiurgo di una nuova creazione in cui il manichino acquista vita e diventa altro da ciò che è. L’essere umano, infatti, nel corso della sua esistenza è sottoposto ad una serie di situazioni, a volte difficili, contro cui nulla può: è quindi un automa che si piega al divenire dell’universo. La pittura però lo salva, dotandolo di quell’elan vitale che gli consente un cambio di prospettiva e la possibilità di ritornare finalmente uomo. Questo passaggio avviene anche nelle sculture di conturbante bellezza, che acquisiscono nuova umanità. L’ultimo periodo si apre all’osservazione del mondo naturale, non solo attraverso le nature morte, ma anche grazie ad una serie di paesaggi che tengono conto delle istanze divisioniste, rilette alla luce di uno sguardo naif. Sono quasi monocromi e questa loro caratteristica li rende perturbanti, segnati da una solitudine che si fa silenzio e giustapposizione di nitori sfavillanti, temperati da uno sguardo terso. Ci sono ancora fiori e frutti in composizioni sempre più movimentate, coì come ci sono dipinti di ispirazione religiosa. Proprio qui si individua la straordinarietà di questa esperienza artistica, cioè l’abile audacia di reinventarsi continuamente, rimanendo fedele a se stessa. Schelling ha scritto che “L’arte deve iniziare con consapevolezza e terminare nell’inconscio, cioè oggettivamente.” La consapevolezza di Zamboni è evidente e risponde ad una precisa necessità di condivisione sostenuta da innegabile bravura; ciò che però lo rende “maestro” è la capacità di rendere visibile ciò che non lo è, portare in superficie quell’inconscio a cui fa riferimento il filosofo: è proprio questo che lo rende portatore di consapevolezza.


FEDERICA MINGOZZI
Luglio 2020