IL FILO DELLE LIBERTÀ

«Nelle statue finisce prima la testa;
per potere (com'egli dice) innamorarsi
del suo lavoro: perché (soggiunge) non posso
lavorare se non per amore»
Pietro Giordani, Panegirico ad Antonio Canova (1810).

Alla fine del 1996 Ermanno Zamboni dipinge Solitudine. In primo piano, accoccolata sulla soglia, una giovane donna si mostra in tutta la sua struggente bellezza. Le linee curve del corpo risuonano d'armonia e dolcezza, non sono perfette, ma proprio perché non lo sono diventano ancora più seducenti, più vicine a noi. La posa raccolta, la testa ricurva, la mano abbandonata, le spalle stanche e remissive la racchiudono in un bozzolo di luce. Una luce bianca, accecante, che getta ombre profonde e spettrali sul viso assorto e lontano: «Abbelli la sua nuova dea di tutte quelle grazie che spirano un non so che di terreno, ma che muovono più facilmente il cuore, fatto anch'esso d'argilla» (Ugo Foscolo, Lettera a Isabella Teotochi Albrizzi, Firenze, 15 ottobre 1812).

Come una venere del Canova ella è là, incorniciata da due piedritti, assorta nei suoi pensieri, muta e immobile. Del marmo ha il colore, la consistenza, la freddezza, l'eternità, e in quella materia amboni ha infuso un sentimento infinito: la Solitudine. È un vuoto incolmabile, perché interiore e profondo, è uno stato d'animo capace di annullare ogni impeto, qualsiasi volontà. A cosa serve la scacchiera sotto di lei se non ha la forza di fare una mossa? Guardingo il gatto cinereo sorveglia il simulacro in attesa di un guizzo, è tutto inutile. Sullo sfondo la natura rigogliosa, il vortice solare e il piccolo sentiero zigzagante contrastano con il proscenio: diversi i colori, differente la pennellata, opposte le direzioni lineari. Interno ed esterno. Davanti e dietro, due mondi sì, ma complementari, come lo sono il dentro e il fuori, il positivo e il negativo: lo sfondo si trasforma in un'apparizione, nel sogno della dea, nella sua speranza per il futuro, ancora incerto, difficile, sconosciuto. E se dietro quella china ci fosse la felicità? Zamboni è consapevole di essere a una svolta. Il 1996 è appena terminato quando un nuovo lavoro vede la luce: Invito al gioco.

Sono scomparsi i fondi neri, cupi, impenetrabili di tante nature morte, si sono eclissati i davanzali, e gli alberi non sono più l'elemento predominante dei fondali: ora imperano solide e maestose montagne. L'orizzonte è percorso da brulle masse rocciose e invalicabili crepacci. Una nuova alba, rischiarata da un pallido e convalescente cerchio di luce, si è aperta uno spiraglio tra i pesanti nembi grigi. La serie di cambiamenti è evidenziata anche dalla brusca curva della strada che collega primo piano e sfondo, attenuando quella separazione di livelli che per tanti anni ha caratterizzato il lavoro di Zamboni. C'è qualcosa di scenografico nella cornice di cemento che inquadra la scena e nel drappo che, come un sipario, cala dall'alto e avvolge il corpo della donna in primo piano. Scomparsi i foulards scuri che celavano la poesia e la sensualità del corpo o velavano la chioma indomita, ella cerca riparo, pudica e sognante, tra le pieghe di quella stoffa.

Così doveva apparire agli occhi di Odisseo la giovane e bella Nausicaa: «Sei tu forse dea o mortale? / Se alcuna delle dee tu sei del vasto cielo. / per la bellezza del volto, e l'alta statura, / e l'armonia di forme, tu mi sembri Artemide, / figlia del sommo Zeus: tanto le somigli» (Odissea, libro VI, WV. 150-155). Dall'altra parte, una delle ancelle la invita a giocare: l'agile e longilineo corpo è teso nella corsa, il panno (dello stesso colore delle camelie) è rigonfio di vento, il braccio è proteso per reggere il filo dell'aquilone, tutto il corpo è accarezzato da una tiepida luce solare. Ovunque risuona il soffio di una brezza benefica, ristoratrice.

Ancora una volta nell'arte di Zamboni ci troviamo di fronte alla dualità: le due fanciulle non sono formate della stessa sostanza, non appartengono allo stesso mondo. Diverso è il colore che le riveste, diversa è la materia che le ha modellate, diversa è la gerarchia dello spazio che occupano. Una, quella più vicina a noi, pare fatta col gesso; l'altra, apparentemente più 'vera', è invece più simile a un ricordo, a un'apparizione leggiadra e fugace. Nonostante ciò non sono due realtà estranee: una trova nell'altra la giustificazione della propria presenza.

L'aquilone, nella sua variopinta e ludica geometria, diventa il simbolo e il perno del messaggio dell'artista: illuso di essere libero di volteggiare tra le nuvole, di lasciarsi cullare dal vento, senza meta e senza aftanno, non si accorge della realtà: un filo sottile, ma tenace, lo lega alla terra, lo controlla quel tanto che basta per poterlo trattenere. Non sono forse così la vita dell'uomo, le sue fantasie, le sue illusioni? Lo leggiamo anche negli occhi della donna in dolce attesa in Paura di volare (1997): il difficile tante volte non è staccarsi da terra, ma rompere il filo.

Lorella Giudici
1997