UN ATTIMO PRIMA DELL'ALBA

Le opere di Ermanno Zamboni sono come delle finestre aperte sul mondo primordiale, prima che venisse segnato da ciò che la Bibbia nel Libro della Genesi chiama peccato originale, quindi sul giardino dell'Eden, o su ciò a cui i classici, a partire dai greci, fino agli Antichi Romani, hanno sempre guardato e ambito nei loro tentativi d' inventarsi o di immaginarsi la (o le) divinità, cioè la cosiddetta 'età dell'oro' cantata dai poeti, da Omero a Virgilio, quando tutto appariva, ed era, agli occhi dell'uomo e della donna, bello, buono, vero, giusto. Puro. Che questa sia la storia della salvezza o il frutto di menti particolarmente eccelse ed evolute ciò che viene annunciato o immaginato ruota, in un modo o nell'altro, attorno allo stesso concetto. La relazione dei progenitori con il mondo e la natura creata non era deturpata, ingannata, da un elemento estraneo. Ma, invece, era semplice, come quella dei bambini. L'inganno ci fu e le conseguenze per l'uomo e la donna furono terribili.

Da qui il significato delle finestre, caratteristiche delle opere di Zamboni, dietro le quali si trova questo mondo primitivo e incantato, il quale però si è separato da noi attraverso una netta linea di demarcazione. Lo stesso concetto, tra l'altro, è ripreso dal sommo Michelangelo Buonarroti nel suo mirabile Tondo Doni conservato alle Gallerie degli Uffizi a Firenze, l'unico suo dipinto sulla cui autenticità autografa si abbia una sicurezza pressoché assoluta. Li, sulla linea grigia, netta, che separa i nudi classici in conversazione disposti dietro la Sacra famiglia, situata in primo piano, si erge una figura, che è San Giovanni Battista, il quale guarda verso il Bambino, colui che è venuto per riportare l'uomo alla dignità perduta. Originaria.

Zamboni riprende sia pure con elementi ripresi dal simbolismo e dal surrealismo, in particolare Paul Delvaux e René Magritte, dovuti alla sue passioni giovanili e quindi ai pittori che negli anni trenta, quaranta e cinquanta, andavano per la maggiore, nelle sue opere ci parla di questo.

La risposta che offre al quesito posto dalla struttura dei suoi dipinti è enigmatica e malinconica nello stesso tempo: dato che in primo piano quasi sempre si trovano delle statue classiche. Il significato di queste figure è però, appunto, venato di tristezza, come se non ci fosse altra possibilità che la contemplazione silenziosa per raggiungere quel paradiso primordiale, quel giardino dell'Eden dal quale ormai, per esserci lasciati ingannare, siamo stati cacciati fuori.

Quindi il ricordo del passato in primo piano ci fa rendere conto dell'impossibilità di tornare indietro e allo stesso tempo ci dice dello splendore che è la nostra origine, quel marchio indelebile che, nonostante tutto ci portiamo ancora dentro, che non è stato del tutto deturpato. Perché la natura, nonostante tutto, rimane natura e ciò che viene al mondo è buono, anche se porta in sé già il principio di quella ferita primordiale. Quindi la risposta non viene data, Zamboni si accontenta, ed è già tanto, di suscitare domande. Le sue composizioni infatti solo a un occhio banale e distratto possono apparire indecifrabili e surreali.

Provocano interrogativi dunque dipinti come Risveglio, il quale ci mostra una Venere in primo piano, che pare quasi destarsi al suono della tromba che il satiro situato alle sue spalle, le suona da un'età primordiale, arcana.

Come a volerle ricordare qual è lo spessore e la purità del mondo, del quale lei, nonostante sia costretta a vivere nel marmo, ancora rappresenta. Ricordi invece appare venato dall'amarezza, con questa Afrodite agghindata da uno scuro mantello e da un buffo cappellino, che sembra meditare sulla condizione dei progenitori. Adamo ed Eva, gli stessi che dipinse cosi drammaticamente Masaccio nella Cappella Brancacci, giacciono dietro di lei, abbandonati ai piedi delle montagne, probabilmente dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre. All'orizzonte sta per sorgere il sole, facendo capolino tra le vette, nell'aria fredda di un primo mattino.

Paura di volare invece affonda nella mitologia classica con un eroe che tiene in mano un filo al quale è legato, sospinto dal vento, uno dei tanti aquilonidesiderio che Zamboni ama particolarmente dipingere. Il cielo azzurro, è venato d'arancio, con un primo sole che fende le nuvole a illuminare quella vallata vinciana. In primo piano una donna reale, splendida, in carne e ossa, rivolge un'occhiata, interrogativa, profonda e terribile a una Venere ridotta a pagliaccio. Anche l'atmosfera delle Bagnanti è incantata e, stavolta, persino ironica con questa figura femminile che esce dall'acqua e la statua in primo piano seduta sul davanzale con un asciugamano attorno al collo e un turbante in testa nell'atto di asciugarsi le chiome, come se avesse preso parte alla nuotata notturna anche lei. Talvolta anche le nature morte o gli animali fanno la loro comparsa in queste composizioni, si tratti di girasoli appassiti o di pere, arance o limoni, zucche o pomodori, gatti o civette.

Essi si trovano quasi sempre sul davanzale della finestra come a costituire un tramite, quello della natura vegetale e animale incontaminata, tra l'età delle origini e il nostro mondo, dove ogni tentativo di costruzione incontra seri ostacoli, in un secolo confuso e contraddittorio, ed è costretto a dar battaglia e a chiedere aiuto per portare a termine il suo intento.

È giusto affermare il coraggio della classicità nella pittura di Zamboni

Questa risale infatti alla sua formazione, alla sua, mai dimenticata, età dell'oro, alla frequentazione di Felice Casorati, conosciuto a Torino quando era ancora studente dell'Accademia Albertina. Occorre subito dire che questo vero e proprio discepolato ha portato i suoi frutti. Infatti è ancora presente, ora, nella cura minuziosa dei particolari, nel sapiente dosaggio dei toni dei colori e nell'accuratezza del disegno che non disdegna di saper copiare bene un naso o un sopracciglio, (espressione che il maestro Mavrudis diceva agli inizi del Novecento al suo giovane allievo Giorgio De Chirico e che questi amava ripetere ai pittori astratti suoi contemporanei ribadendogli la necessità di imparare a «temperare bene il loro lapis» prima di definirsi artisti), prima di accingersi a dipingere composizioni così articolate, dal significato arcano, eppure sempre attuale, visto che ci parlano della condizione umana.

La sua ultima produzione si è anche soffermata, con una nuova forza cromatica, che bisognerebbe chiamar espressionista, su un tema che, volenti o nolenti, ci riguarda tutti: quello della guerra che, complici i numerosi attentati, è arrivata anche in Europa. Da Caino e Abele in avanti questa è una delle conseguenze più terribili di quella ferita che ci portiamo dentro. I sopravvissuti ci mostra, attraverso segni contorti, due giovani accanto a delle macerie. Un cartello stradale drammaticamente inclinato sottolinea che ciò che prima c'era è stato brutalmente modificato. Essi giacciono, li, immobili, con gli occhi fuori dalle orbite, stralunati, tanto è l'orrore che sono stati costretti a subire. Ma il dipinto che più mi ha colpito in tal senso è L'angelo, che rappresenta un paesaggio semidistrutto dopo un bombardamento aereo. Il cielo, uniforme e terribile, è rosso sangue. Alcune figure umane si aggirano come zombie tra le macerie, spaesati, senza più alcun punto di riferimento. In primo piano si trova, semisdraiata, una donna ferita, appoggiata a ciò che una volta era un muro di una casa. Coperta da un panno, con gli occhi socchiusi. Durante la sua agonia viene rinfrancata da un angelo, che fa capolino dal cielo, come un sogno a lungo desiderato, a sussurrargli chissà quali celestiali canzoni, quali inesprimibili canti d'amore, per lenirle il dolore, per soccorrerla, per farla star meglio. Questo dipinto porta con sé, pur dentro un disastro dalle proporzioni immani, una speranza. Anche se in mezzo a un oceano di distruzione.

Questi dipinti dunque suscitano interrogativi sempre attuali, senza tempo, sui quali, pittori di ogni epoca, da Giorgione a Tiepolo, da De Chirico a Delvaux, hanno tentato di dare risposte, mai uguali, mai scontate, cosi come mai uguale e mai scontata è l'esistenza di ogni singolo uomo. Unico e irripetibile.

Ma in una delle sue ultime opere, il grande trittico della Crocifissione un tentativo seppur accennato, timido, timoroso e ancora barcollante di risposta, ai quesiti di una vita, viene dato. Quando il dolore di quelle membra, sofferenti e straziate per amore, diventerà carne, vene, sangue, sudore, solo allora, e non prima; sarà l'alba. Ora, siamo appena un attimo prima. Ma ciò che conta è la direzione intrapresa, e l'alba sta per spuntare. Poi il resto verrà da sé.

Vladek Cwalinski
2005

 

Nello scorrere degli anni i dipinti di Ermanno Zamboni scandiscono, nel privilegiare le presenze femminili, il suo sentimento di separazione (rifiuto?) della storia in immagini bloccate nel silenzio del corpo, senza squardo, nudi o maschere estranei al dipanarsi dalla storia collettiva. Rilevatori di un disagio che sembra quardare solo a se stesso, gli sguardi sulla condizione umana si aprono oltre al cupo crepuscolo de «l'altalena dell'esistenza», preludio di cieli plumbei e sanguinanti del terzo millennio.

Non più i muti sogni immobili, ma i 'Giochi notturni' della storia che passa e stravolge obbligando le donne ad aprire gli occhi sul mondo dilaniato dalle guerre di oggi e di sempre, vittime con i bambini, assolutizzati nella struggente citazione (dal ghetto di Varsavia) del bimbo fra le macerie. A suggellare un mondo sconvolto dalla violenza umana, brandelli di umanità umile e dolente confluiscono verso il sacrificio sulla croce dell'Uomo Dio, l'antico Christus patiens, l'uomo dei colori della tradizione iconografica.

Sanquina il cielo della Crocefissione, ma sullo sfondo si accampano i sopravvissuti che cercano nella sofferenza la speranza di un riscatto e della salvezza. La condivisione del dolore - autentica sigla della condizione umana - è l'unica giustizia che superi la storia e colleghi il finito all'infinito.

Questo è il messaggio, oggi, della pittura di Zamboni, nel recupero dei grandi temi dell'arte universale.

Franca Tonella Regis
Presidente Società Valsesiana di Cultura
2005