L'INQUIETUDINE DELLE MUSE
«Noi siamo abituati a questa esistenza e a questo mondo, non ne sappiamo più vedere le ombre, gli abissi, gli enigmi, le tragedie e ci vogliono ormai degli spiriti straordinari per scoprire i segreti delle cose ordinarie. Vedere il mondo comune in modo non comune: ecco il vero sogno della fantasia».
Roberto Papini, 1906
Scoprire i segreti delle cose ordinarie e vedere il mondo comune in modo non comune questo è il punto, anzi, per intere generazioni di artisti è stato lo scopo del fare arte. Morandi, De Chirico, Redon, Schad, Delvaux, Magritte.. tutti loro hanno cercato la verità delle cose non per metterle a nudo, ma per preservarne il mistero, l'enigma, la memoria; per salvarle dal quotidiano e consegnarle a una storia senza tempo e senza nomi.
Qualcosa di simile lo fa anche Ermanno Zamboni, che, come i suoi illustri predecessori, delle cose ha imparato a scoprirne e narrarne gli aspetti più profondi e i sogni più segreti.
All'onirico appartengono infatti tutte le sue muse: donne dai corpi del colore del gesso (lievemente più umane delle loro precedenti sorelle), dagli occhi chiusi o pesantemente ombreggiati e dai gesti lenti e affaticati. Fanciulle che occupano la scena senza che venga loro chiesto di agire o di parlare; al più si abbandonano su divani color cremisi o restano ritte nell'inquadratura dello stipite che quasi sempre fa da quinta al loro orizzonte.
Presenze silenti e pressoché immobili, avvolte in un chiarore pallido e lunare, dee la cui unica vera occupazione (e preoccupazione) è quella di vagheggiare e la scena che si presenta sullo sfondo pare essere proprio la narrazione di queste loro immaginazioni (l'isola dei sogni, 1999 o / sogni svaniscono, 1999): angoli di paradiso popolati da giovani musicanti o da coppie di innamorati, isole dove il tempo sembra essersi fermato in una pace assoluta e in una dimensione irreale. Gli alberi controluce e le ombre allungate (memori di Böcklin e delle piazze dechirichiane) aiutano a evocare quel pizzico di mistero che le sostanzia. Nelle nature morte, poi, dietro a frutti caravaggeschi e a davanzali fiamminghi, danzano folletti, volano creature della notte, appaiono spiritelli che sembrano usciti da una fiaba nordica, dai racconti di Fra Dolcino o da qualche disegno daumieriano.
Tuttavia, il debito più profondo resta nei confronti del pictor optimus, non solo per le ombre nette e inquietanti, per l'uso teatrale degli assiti (che spesso fungono da palcoscenico) o delle quinte architettoniche; per l'evocazione del classico (come forma e come disciplina pittorica) e per l'atemporalità delle immagini. L'allusione a De Chirico è sottolineata dalla scelta di adoperare dei manichini come coprotagonisti di questi luoghi fantastici.
Eppure, i manichini di Zamboni sono solo lontani parenti degli enigmatici modelli metafisici. I personaggi usciti dal pennello dell'artista valsesiano hanno un che di medioevale, quasi araldico e, soprattutto, hanno un ruolo che sembra essere quello della controfigura. A seconda dell'occasione essi possono infatti diventare angeli o principi, divinità o guerrieri, ma sempre nell'anonimato di un volto senza lineamenti, di un corpo senza particolari caratteristiche anatomiche (giusto qualche dettaglio geometrico a suggerirne la sessualità) e di movenze stereotipate, come quelle dei modelli in legno che si usano nelle scuole d'arte per gli esercizi di posa e di peso.
I manichini fanno la loro prima apparizione nelle pitture di Zamboni in Ricordi d'infanzia, un olio del 2005, dove due lignee figure accompagnano una giovane donna dai capelli ramati, che lentamente oscilla su di un'altalena che ha per sfondo un paesaggio infuocato dal tramonto. Ma è negli ultimi due anni che la loro presenza si è fatta più assidua: La visita (2008), La dea (2008), La partenza (2008), tuttavia, a guardarli bene, più che di De Chirico sembrano figli di Paolo Uccello, di Luca Signorelli, del Beato Angelico, dei quali riecheggiano sia le pose sia l'onirica visionarietà, anche cromatica.
E se nel pittore di Volos le muse divengono inquietanti, nei dipinti di Zamboni, dietro quel loro flemmatico apparire, si nasconde 'inquietudine di chi sa che basta un niente per trasformare il sogno in incubo, la serenità in malinconia, il ricordo in triste presagio. Resta il fatto che, come ha scritto Schopenhauer «per avere pensieri originali, straordinari, forse immortali è sufficiente estraniarsi dal mondo e dalle cose per certi momenti in modo così totale che gli oggetti e i processi più ordinari appaiono assolutamente nuovi e ignoti, sicché in tal modo si dischiude la loro vera essenza. Quel che si richiede qui non è qualcosa di difficile; ma non è assolutamente in nostro potere ed è appunto il dominio del genio», aggiungeremmo noi, dell'artista.
Lorella Giudici
2010